martedì 24 febbraio 2009

Se il circo é bello come un crimine





Il film Man On Wire (James Marsh, 2008) ha vinto l’altro ieri l’Academy Award come miglior documentario. Si tratta della ricostruzione della leggendaria impresa di Philippe Petit, il funambolo-filosofo che il 4 Agosto del 1974 attraversò illegalmente un filo da lui teso, senza rete, tra le cime delle torri del World Trade Center di Manhattan. Musicato da Michael Nyman, il film arriva agli Oscar dopo una montagna di altri premi, e nella classifica tra le dieci opere più apprezzate dalla critica americana nel 2008.



Uno degli slogan del film è : “il crimine artistico più famoso del secolo”. E in effetti il circo, per sua natura, stupisce e coinvolge quando è un crimine, quando sovverte nel profondo tutto ciò che è normale.
Una volta i buffoni, i prestigiatori e gli acrobati erano illegali per definizione, venivano seppelliti a testa in giù fuori delle mura. Philippe Petit oltre ad essere un funambolo clandestino, è un artista e un teorico del “pickpocket”, l’arte di rubare i portafogli a fini di spettacolo.


Il circo parla della morte, dei contrasti, delle cose e degli esseri estremi. E oggi ci riesce sempre di meno. In quali casi il circo oggi può essere definito bello come un crimine? Difficile. Forse non nei pur magnifici spettacoli del Cirque du Soleil, in cui la sicura bellezza è più vicina alla normalità rassicurante del grande teatro musicale, che non allo stupore della trasgressione. Non certo nella stanca routine di molto circo tradizionale, spesso altrettanto autocelebrativa quanto molto “nouveau cirque” intellettuale, anch'esso ormai poco "criminale". Quella che era una vera rottura col mondo normale è oggi ostaggio del politicamente corretto, idea di cui sono già stati vittime i mostri e i freaks di natura, spariti sotto la bandiera dell’”integrazione sociale”.
Il circo non è uno spettacolo che si possa integrare. Il circo deve essere estremo, violento, deve essere lo schiaffo di una sera verso la vita normale, vibrante come lo schiocco di una frusta. Deve essere un pugno nello stomaco che per due ore ti sbatte fuori dalla quotidianità, come l’impatto dell’acrobata quando cade dalla colonna umana. Deve essere un’esperienza forte come la folata di vento che rischia di spostare il funambolo tra le due torri e succhiarlo via dal mondo in un istante; intensa come il piscio caldo dell’elefante di cui oggi si ha ormai paura. Deve essere duro, tanto da far sentire il rumore dei calli spaccati sulla barra del trapezio nel silenzio che chiude il salto mortale nel vuoto. Deve essere capace di alzare la polvere come le tende di velluto, al tempo stesso trionfali e logore. Il circo deve puzzare di merda. La stessa merda che il minuscolo e fragile funambolo Philippe Petit aveva rovesciato in pochi minuti sulla gloria titanica delle effimere torri.

Il circo rischia oggi di perdere la sua bellezza estrema di crimine artistico, schiavo forse di un mondo sempre più asettico.
C’è un famoso precedente del circo vincitore di un Oscar: “Il Più Grande Spettacolo del Mondo” (C.B.De Mille, 1952). Era l’epopea del Ringling Barnum, il più grande circo viaggiante del mondo. Quasi tre ore di technicolor impastato di fango, ruggiti, fiamme, sfide acrobatiche estreme, inganni da fiera, nell’epopea di un impossibile ma vero cantiere viaggiante. Anche in quel caso il circo vinceva per l’enormità del suo patrimonio "criminale" rispetto alle leggi quotidiane, quasi l’ultimo epico baluardo al mondo allo stesso tempo della bibbia, della pirateria, del carnevale e della guerra. E un anno dopo quel film, quel mondo era scomparso per sempre.
Speriamo invece che “Man on Wire” (si spera presto visibile in Italia) possa essere un ispirazione per chi fa circo verso quello che più manca: il rischio artistico, il gusto del crimine.


A camminare nel vuoto, se ci si crede veramente, non è detto che ci si debba lasciare per forza la pelle.

Anzi.





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