sabato 17 maggio 2008

Carlo Colombaioni ci ha lasciati


Quando un clown fa la rivoluzione




“Signore e signori buonasera, bonsoir, good evening, guten abend. Io sono Alberto, del duo Colombaioni, my name is Alberto. Mio fratello si chiama Carlo, ma purtroppo stasera è in ritardo. Mon frére n’est pas là. Scusandomi per l’inconveniente, nel frattempo…”.


La gente del circo ha il carisma scolpito nella faccia. Sono facce fatte di pieghe, rughe, con due occhi profondi profondi in mezzo, che si trasmettono da chissà quante generazioni. Occhi capaci di annusare il pubblico, e capire di sera in sera quello che il pubblico vuole e come riuscire a darglielo. Quello che i teatranti chiamano “presenza scenica”, per quelli del circo è semplicemente l’essere, l’esistere.

Bravo. Clap clap. Bravoooo!!!

Ahooooo….

Alberto! Ma che ci fai là sopra?


E in vita mia non ho mai visto una presenza scenica più travolgente di Carlo Colombaioni (anzi Charly, o meglio ancora “Sciali”, per i suoi).

Cosa fai in platea, Carlo? Vieni qua a lavorare…

Che?

La-vo-ra-re.

Chi?

Tu.

Io.

Si.

No.

Farlo entrare in scena e mettere una bomba in un teatro, non faceva differenza. Carlo poteva esplodere in platea, sul palcoscenico, in mezzo al pubblico, dai camerini. L’assenza totale di trucco e costume ti spiazzava, rompeva tutte le regole, tutti i ruoli dello spettacolo. E’ come se in un match di boxe uno passa continuamente da sfidante, ad arbitro, a spettatore. Non sapevi più dov’era la maschera e dove l’attore, se vedevi un attore o un pagliaccio, un vecchio o un bambino.

Che pubblico. Mamma mia, che brutte facce…

Era un mitragliatore che per novanta minuti sparava a zero in qualunque direzione. Un terrorista della risata.

E poi la voce. Quella voce acuta, stridula, e poi bassa, quella che hanno un po’ tutti i pagliacci, che se la sono rotta già tre generazioni prima di nascere, da quando in piazza o nelle piste non esistevano ancora i microfoni. Ma a differenza che per i suoi colleghi, la cui voce sa spesso di routine e a volte un po’ di tristezza, la voce di Sciali era uno strumento d’arte e di gioia. Uno stradivari della felicità. Uno strumento raffinato e al contempo rozzo, puntuato di intonazioni e gridolini da clown in grado di esprimere al meglio la gioia, la vendetta, la cattiveria, la soddisfazione, la sorpresa ebete e quella furba del villano.

Il pagliaccio Sciali era quello che deve essere il clown fin dalle origini dell’umanità, senza i fronzoli delle varie culture. Sporco e rozzo, ma anche poetico e virtuoso. Ingenuo e scaltro. Cattivo, miserabile e disperato. Giocoso e prepotente. E, insomma, tutto quello che per mitologia si vorrebe sempre fosse il clown.

Non a caso è stato lui (col fratello Nani, va detto) a folgorare Fellini e Fo sulla centralità del clown negli anni in cui si reinventava il teatro.

E qui Carlo Colombaioni ha giocato un ruolo di portata mondiale; io mi permetto di dire una rivoluzione nelle arti sceniche.

Applauso.
Applauso! Ahò…
Ma che lingua parlano questi?
Madammm…Mister…Applauso!!!
La crisi del teatro.


Attorno al ’68, quando i linguaggi scenici si mettevano in discussione, gli unici a restare fermi nei loro codici sono stati quelli del circo. Gli unici della tradizione a esplorare nuove forme sono stati Annie Fratellini, Alexis Gruss ma prima ancora Carlo Colombaioni. Unendosi all’esempio dei giovani “di fuori”, come Jean Baptiste Thierrée, Jerome Savary, Jango Edwards, eccetera. Con un coraggio enorme, ma forse anche con la giusta astuzia, a quell’epoca, Carlo ha rifiutato la logica del circo e le sue costrizioni culturali. Ma non buttandola via: capovolgendola.Cambiandogli il contesto. Col cognato Alberto ha continuato a fare le stesse cose del circo, uguali, ma al teatro. Rinunciando a trucco, costume e naso rosso.
Un po’ come un prete che getta la tonaca alle ortiche, che rifiuta i rigori della chiesa per andare a predicare per fatti suoi. E’ stato un trionfo mondiale. Per molti, certo, l’ennesima metafora di librazione contro costrizioni e potere. Ma per i più l’invenzione di un nuovo linguaggio artistico senza rinnegare il vecchio. Ed è stato un trionfo in tutto il mondo.

Signorina, bonsoir….Sa, io abito a Roma, proprio vicino…

Carlo, ma che fai seduto là?

Organizzo le vacanze…

Come per tutti i grandi artisti, la cosa più affascinanate non era il repertorio: si trattava di adattamenti delle misere farse e delle stesse “entratine” da circo di periferia, seppur con varianti magistrali. Era l’energia nell’interpretazione. Energia, energia. Vedere Carlo esibirsi era come Pollock che dipinge, Glen Gould al piano o Chet Baker soffiare nella tromba. Energia allucinata, creativa, completamente folle, apparentemente fuori controllo. Libertà improvvisativa costruita sul rigore. Un corpo e una voce che pervadevano tutta la sala, massacravano a morte qualunque teoria di “quarta parete”. Quella forza che ti piacerebbe vedere sempre a teatro, quella forza scenica che ti solleva dalla poltrona, ti prende allegramente a sberle e ti ci ributta dentro.

Signori, la ghigliottina!
Tracchete, tracchete tracchete.
Trrrrrrrrracchete…
Tracchete, tracchete e tracchete…Trach…

Carlo! Mi hai tagliato la mano!

Vado a raccoglierla: non è la mano, ma l’orologio che mi interessa!

Per me la cosa più bella dei Colombaioni, Alberto e Carlo, era la sconvolgente universalità. I loro spettacoli erano recitati in italiano. A Parigi, Londra, Tokio, Oslo. E la gente si ammazzava dal ridere, ovunque. Ho cercato più volte di studiare, capire, come fosse possibile ridurre il linguaggio ad una forma che potesse divertire tutti allo stesso modo. Potrebbe farmi ridere un duo che parla in giapponese? Li ho scrutati, studiati, e non l’ho mai capito. Soltanto, quando guardavi Alberto e Carlo capivi più di mille libri cosa significa “Commedia dell’Arte”.

E chi sarebbe questo?

Amleto.

Chi?!

Amleto, principe di Danimarca!

Che brutta faccia.

Adesso non ci sono più, nessuno dei due. La rivoluzione che Alberto e Carlo hanno portato al mondo del circo, del teatro, e del clown è di quelle che arrivano una volta in un secolo. Hanno amplificato in modo enorme il significato della parola clown, e senza snaturare la tradizione. Ci hanno aggiunto strumenti fondamentali al clown di oggi, come la partecipazione del pubblico agli sketches. Hanno divulgato quest’arte a centinaia di migliaia di persone per le quali il clown era rimasta l’icona dispregiativa di un circo decadente. Lo hanno restituito al teatro.

Vogliamo ricordare la loro ultima spiazzante immagine alla fine di ogni spettacolo, quando genialmente, dopo essersi esibiti in borghese, si sedevano al tavolino del trucco e si mettevano nasi rossi, matita e parrucche per andarsene di scena.
Ci sia concessa un po’ di retorica: vederli uscire di scena così per l’ultima volta, per andare a raggiungere doverosamente vestiti da pagliacci, tra le nuvole, Grock, i Fratellini, Charlie Rivel e tutti gli altri. Perché, come disse qualcuno quando morì Charlot, anche gli angeli hanno bisogno di ridere.


Carlo, stasera andiamo al ristorante, e paghi tu.

Chi?

Tu.

Io?

Si.

Si. No.


Carlo e Alberto in video nel "Guglielmo Tell", la loro versione del più antico numero di clown del mondo.

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