domenica 2 novembre 2008

Quando un clown parla con Dio (ed é pure donna)


Alba Sarraute


Per definire il clown basterebbe dire che deve far ridere. Ma, dalla notte dei tempi, per far ridere il clown si è sempre servito della propria marginalità. Il fool, lo zotico, lo scemo, l’ubriacone, il vagabondo di migliaia di piste, palcoscenici e schermi hanno sempre costruito la loro risata su questa loro marginalità, portandosi dietro un retrogusto amaro. E’ diventata un’ovvietà teorica ed estetica il riflettere sullo sberleffo al potere, sull’energia sovversiva e sulla prepotenza del clown. Ma è la realtà. Però poi il clown si è servito anche di tecnica: per far ridere, si è detto sempre, deve “saper fare” qualcosa.

Alba Sarraute, una delle poche donne clown in giro, aggiorna la sua arte potenziando queste tre basi: la risata, la sovversione, la tecnica. Giovanissima, ha studiato di tutto: musica, canto, acrobazia, danza, teatro, circo.


Il suo recital Mirando a Youkali (titolo e spettacolo evocative del cabaret brechtiano), sta girando per la Spagna. E’ una botta di energia, una riflessione clownesca sull’esistenza a tratti potentissima.

“Vivere con il peso sociale e la paura del fallimento, la perdita dell’innocenza e della libertà. La paura della morte, il dubbio della morte…”

Il clown di Alba é una specie di sopravvissuta ad un mondo sempre più difficile, come del resto tutti i grandi clown lo sono stati. Solo che il mondo di oggi è un vero casino. La maschera di Alba è una silhouette agrodolce, una sorta di aviatore uscito da una fiaba da Piccolo Principe postindustriale, una sorella perduta dei Fratellini ai margini di un disastro nucleare. Suona il sassofono e fa le magie coi guanti da boxe, porta un elmetto da guerra e si trascina dietro un fascio di legni della foresta amazzonica. Canta il rap e il gregoriano, cammina sulle mani, fa le smorfie e le rondate. E’ dolce e graffiante, impacciata e lucida, maldestra e saggia: cosa si vuole di più da un clown?



“Signore, perché non ce lo dici prima, quando decidi che dobbiamo morire?”

Il clown bianco a cui si oppone la derisione di Alba, è il mondo intero: noi spettatori, a cui lancia i propri abiti; il signor Busch (forse il più grande clown bianco di oggi); l’”arte contemporanea”; la chiesa (memorabile il pezzo della confessione); e persino Dio in persona: lo implora, lo prega, gli si confida, lo manda persino affanculo: ma lo fa danzandoglielo, facendo i salti mortali, gli equilibri, o suonando due sassofoni accompagnata dal suo trio di splendidi musicisti.


Il suo spettacolo è costruito mischiando le tecniche circensi, la danza e la musica a testi di Miguel Hernández, Koltés, Rousseau, Saint-Exupéry, Baricco, Brecht, gli indiani del sudamerica. Ma la spontaneità leggera e il gusto del “mestiere” circense la allontanano dai narcisismi del nouveau cirque e le permettono il difficilissimo risultato di essere cruda, struggente, poetica, violenta, tenera e universale. La sua maschera è essenziale, quasi rituale come quella di un indigeno la cui forza è non avere niente.

Universale vuol dire anche che, dopo i saluti finali di questo delirio sulle sorti del mondo, una bambina di circa due anni é salita in scena per darle un bacio.

Quanto avrei voluto vedere questo spettacolo a due anni.

Ho tante volte pensato come l’universalità secolare del clown, quel filo pazzo che passa dalla saggezza intellettuale del fool shakespeariano alla malizia di Charlot, ai virtuosismi di Grock fino a Dario Fo sarebbe potuta sopravvivere dopo di noi nel nostro ignoto futuro: Alba Sarraute ci ha avvicinato la speranza.

“Un giorno il cielo ci cadrà sopra e nessuno se ne accorgerà”.

www.albasarraute.com

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