martedì 12 ottobre 2010

Vent'anni di "Florilegio" Togni




In un mestiere e un’arte come il circo, universo per definizione ricco di innovazioni, pionieri,invenzioni e stravaganze, è raro poter considerare un’esperienza “rivoluzionaria”. Nel 1990 sembrava ci fosse bisogno proprio di questo. Il circo di tradizione europeo viveva uno stallo evidente; i primi esempi di “nouveau cirque”, pur con grande successo, erano ancora curiose novità, come Archaos o Zingaro; gli stessi circhi “à l’ancienne” sfioravano la soglia della prevedibilità; il Cirque du Soleil doveva ancora incontrare il favore dell’Europa. Al Bois de Boulogne di Parigi, con allegra sfacciataggine, questo tendone italiano arriva dal nulla nella capitale dello spettacolo, e diventa per mesi una tappa di pellegrinaggio da tutto il vecchio continente. Perché? Quello che avevano fatto Livio, Corrado e Davio Togni era la cosa più bella e rara che possa fare l’artista: una sintesi. Una sintesi del proprio vissuto, del proprio sapere antico e della propria curiosità moderna. Una sintesi tra la sincerità di essere se stessi e un gioco scanzonato di finzione, vivendo e simulando al tempo stesso la leggendaria crisi del circo e la celebrazione della sua eterna vitalità genuinamente felliniano, tra il crocefisso e la scorreggia.
In quel momento, e in molti altre serate felici dei successivi venti anni, il Florilegio era il circo piu’ bello del mondo. Poiché era ogni cosa, in un gioco di contrasti fenomenale come un orgasmo, stridente e perfetto: era il circo con gli animali (tanti, superiori alla media) ma non quello delle dive e dei supereroi; era il circo dei velluti e degli stucchi ma con l’accortezza di lasciarci sopra il fascino della polvere; dei clown e degli acrobati, ma di quelli che scappano via prima di prendere gli applausi, quasi sorpresi del loro successo, la loro corsa fuori dalla pista frenata solo da una carica di oche o di elefanti. Senza mai concessioni al retrogusto televisivo, a banalità new age, romanticismi mielosi e ad altri flirt estetici che stanno ormai soffocando lo spirito dei circhi, ma mettendo l’ironia sullo stesso gradino del rigore. Era il circo dei vagoni antichi, tra i piu’ belli mai visti, ma con lo spirito generoso del bricolage, fatti con le mani dei trapezisti e dei giullari.
Non si spiega altrimenti come questo circo, che ti avvolgeva come un film, sia stato quello negli ultimi vent’anni che abbia piu’ incuriosito, piu’ viaggiato con trionfi e disinvoltura in tanti luoghi del mondo. Forse nella stessa epoca, e s’intende con le dovute proporzioni, il Florilegio è stato secondo solo al Cirque du Soleil ( e a esso diametralmente opposto) in quanto a capacità di viaggiare. Sembrano le tappe di un romanzo picaresco d’altri tempi, tanto i luoghi e le culture sono lontane tra loro pur in un mondo globale: Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Germania, Olanda, Irlanda, Scozia, Turchia, Iran, Algeria, Tunisia, Emirati Arabi, Siria…Vorrei appendermi sul muro, come un trofeo surreale, la ruota colorata di uno di questi camion. Non si contano i circhi, soprattutto in Francia, che hanno visto rilanciare la loro economia grazie all’ispirazione artistica dello “stile Florilegio”. E basta guardare gli chapiteaux dall’Australia all’Argentina per vedere quanto l’intuizione architettonica e gli elementi decorativi dei fratelli Togni abbiano rivoluzionato questo tipo di industria.
Ma prima di questo, il Florilegio va ringraziato per un elemento inestimabile:l’aver rischiato e lavorato sull’umanità profonda del circo, sull’importanza di questa forma di spettacolo nella sua intensità piu’ ancestrale, nei suoi contrasti piu’ forti, esilaranti e terribili, sull’imprecisione che diventa sublime.
Prendendo la realtà e, senza saperlo, trasfigurandola: ovvero, la pura arte.

venerdì 5 marzo 2010

Ursula Bottcher (1927-2009)

La sostenibile leggerezza dell'orso polare





In un mondo in cui l’eroismo per fortuna non corrisponde più al dominio sulla natura, non per questo rifiutiamo di piangere i miti del circo. Nell’aberrazione per la corrida, non possiamo impedirci di ammirare l’arte, il coraggio e la fierezza dei grandi matadores. Così come in quell’ universo di contrasti che è il circo, non può lasciarci indifferente la scomparsa di chi nel suo tempo rese a suo modo sublime la desueta arte del domatore.






Tra le follie della trasformazione coloniale del circo ottocentesco, vi furono gli orsi bianchi. Relativamente docili da addestrare (quanto pericolosi), si scoprì che il loro fascino spettacolare stava nell’accumulazione. Wilhelm Hagenbeck, colui che ne diffuse il culto circense, ne riunì fino a 70 in una gabbia, o 40 a nuotare nella pantomima acquatica “Siberia”, offerta in repertorio all’industria dei grandi circhi stabili dei due continenti all'alba del '900 (ed interpretata da Maria Rasputin, realmente figlia del profeta dei Romanov).


Gli orsi bianchi al circo non esistono più: per fortuna, essendo probabilmente tra i più martoriati animali del tendone, rispetto alle loro esigenze di spazio e caratteristiche climatiche.
Ursula Bottcher, che a Dresda ha lasciato il mondo stamattina, una decina d’anni fa andò in pensione come l’ultima vera gloria di questa rara quanto assurda arte. Tedesca, era entrata nel 1952 al circo di stato della DDR, che compose per lei un gruppo di 11 orsi polari (allieva di Gaston Bosman, ne addestrerà una ventina). Ursula, bionda platino, non più bella di una mascolina operaia sovietica, rendeva spettacolare la sua già piccolissima statura tra i giganti, dando vita con essi ad un numero tra i più incredibili mai visti nel mondo dello spettacolo.





Con la stessa disinvoltura di una signora che accompagna i barboncini a spasso, la si poteva vedere per un quarto d’ora nella gabbia tra questi pericolosissimi titani. Il suo assistente, Manfred Horn, fu sbranato da uno di essi. Il più grande degli orsi, Tromso, misurava tre metri quando in piedi su due zampe si abbassava a prendere un boccone di cibo dalle labbra della minuscola domatrice.








.La vedemmo più volte, nel corso degli anni, in vari circhi. Infatti l’aspetto a nostro avviso più affascinante era la facilità con cui questa specie di micro-esercito du uomini e animali traslocava per il mondo. La potente direzione di Stato della DDR era riuscita a portare il numero di Ursula nei maggiori circhi del pianeta in un tour de force trentennale: dall’Australia agli Usa, dall'Oriente ai maggiori tendoni e palasport europei; da Vienna a Pigalle, (coi carrozzoni delle gabbie a invadere Place de Clichy) da Madrid al Madison Square Garden, collezionando medaglie e trofei: mai vi fu forse metafora migliore dell’itineranza circense.

A Roma apparve nel 1984 grazie al “Golden Circus”, dove ci ricevette nel suo carrozzone (un vero cimelio da guerra fredda, sicuramente microfonato dalla Stasi) autografandoci il poster di una sua recente tournée giapponese. Stipati in una fila interminabile di grossi vagoni di un verde triste, gli undici, magnifici giganti viaggiavano e vivevano in condizioni misere, sebbene non privi di ogni cura

Col crollo del muro di Berlino, essi vennero liquidati col patrimonio di stato della DDR, e dispersi in vari zoo europei. Non sapremo mai se questi orsi furono più a loro agio stipati negli stretti carri dei circhi e nello stress dei viaggi oceanici, condividendo la quotidianità con i loro simili e l’affetto di Ursula, o dispersi nella malinconia solitaria delle ampie vasche e rocce di resina degli zoo.

Ci auguriamo di non vedere mai più orsi bianchi nei circhi. Ma nello stesso tempo compiangeremo le generazioni che non potranno mai provare la nostra meraviglia, e quella dei milioni che hanno applaudito il coraggio di Ursula e i suoi magnifici partner.